QUATTRO mesi,
per quindici minuti al giorno. Provando a dimenticare tastiere e touch.
Lettere maiuscole e lettere minuscole che scorrono sul foglio,
intersecando segni e pensieri, simboli ed emozioni. Il tondo della “o”,
il gambo della “g”, l’asta della “t”, il manico della “f”. Curve, linee,
pieni e vuoti. E a sorpresa quattrocento bambini digitali di otto, nove
e dieci anni riscoprono la scrittura in corsivo, e in poco più di cento
giorni il loro lessico, punteggiatura e ortografia, migliorano
sensibilmente. Così mentre il mondo celebra (o piange) la morte della
calligrafia e degli esercizi a penna, mentre addirittura la Finlandia
delle scuole più belle del pianeta annuncia, dal 2016, l’addio ad ogni
forma di compilazione manuale, un piccolo esperimento italiano rilancia
con forza le virtù del corsivo. Ri-alfabetizzazione di bambini e ragazzi
che volando dallo stampatello alla tastiera, dicono i più pessimisti,
rischiano di non saper più né leggere né scrivere.
E di perdere a furia di esercitarsi sui tasti, quell’abilità sottile delle mani che l’uso della penna regala.
E di perdere a furia di esercitarsi sui tasti, quell’abilità sottile delle mani che l’uso della penna regala.
È
stato un famoso pedagogista italiano, il professor Benedetto Vertecchi,
tenacemente convinto del pericolo che la scuola 2.0 cannibalizzi
capacità e competenze dei più giovani, ad ideare un singolare progetto
che ha coinvolto quasi quattrocento bambini di due scuole romane.
«Abbiamo chiesto alle insegnanti di far scrivere ad ogni allievo, per
quindici minuti al giorno, brevi testi e pensieri di quattro o cinque
righe, utilizzando unicamente il corsivo. È ormai evidente — dice
Vertecchi — che alla diminuzione della capacità di scrittura corrisponda
una minore coordinazione tra pensiero e azione. Ma anche un
peggioramento nell’organizzazione del discorso, un impoverimento del
linguaggio e della memoria».
I
risultati di questo singolare laboratorio, dal titolo latino “Nulla
dies sine linea”, citazione da Plinio il Vecchio, sono stati
sorprendenti. «Man mano che i bambini si abituavano ad usare la penna,
visto che ormai anche in molte scuole primarie si stanno
diffondendo le tastiere, abbiamo visto progressivi miglioramenti.
Nell’accuratezza e ricchezza del linguaggio, nella struttura della
frase, addirittura nell’ortografia». Segno cioè che nella scrittura
corsiva il pensiero corre fluido dalla testa alla mano, a differenza di
quanto accade con lo stampatello, che spinge invece al fraseggio
sincopato e spezzettato.
Un coraggioso ma solitario tentativo di rieducazione pedagogica quello
ideato dal professor Vertecchi, che rischia di venire divorato dalla
globalizzazione del sapere in “power point”. Profetizza infatti Paolo
Ferri, docente alla Bicocca e grande esperto del rapporto tra culture
tecnologiche ed educazione: «Un futuro digitale è inevitabile, anzi
siamo in forte ritardo e il nostro sistema scolastico è
assolutamente impreparato. Non c’è un linguaggio che deve sovrastare
l’altro, il computer e la penna possono convivere, l’importante è
evitare ai bambini di essere calati in un contesto schizoide». Mentre
cioè a casa e con gli amici, anche i più piccoli vivono una vita da
nativi digitali, quali effettivamente sono, in classe si ritrovano d’un
colpo in un’altra epoca. «Frequentano aule dove non esiste nulla,
neanche il computer, per non parlare di tablet e Lim. E da questa
contraddizione spesso nascono gravi problemi di insegnamento ».
Un
punto di vista opposto dunque a quello di Vertecchi. Anche Ferri però
concorda con la necessità di non perdere l’abilità manuale che la
scrittura in corsivo sviluppa. «Paesi come la Finlandia, che puntano
oggi soltanto sul digitale, non trascurano per niente la motricità fine,
ma la sostituiscono con attività come il disegno, la creta, la musica
che purtroppo nelle nostre scuole non sono sviluppate».
Bisogna
allora spostarsi in Umbria, a Giove, nella scuola elementare dove
insegna il maestro Franco Lorenzoni. Qui il sapere dei bambini si crea
in un particolare percorso dove lo studio e l’esperienza della natura e
dell’arte, l’abilità di accendere un fuoco e quella di imparare una
poesia si fondono insieme. Famoso per aver promosso nel 2012 una
petizione, perché fino agli otto anni computer e lavagne digitali
restino fuori dalle aule dei più piccoli, Lorenzoni ha di recente
raccontato la sua esperienza di maestro nel libro “I bambini pensano
grande. Cronaca di un’avventura pedagogica”.
«Il
corsivo sviluppa uno straordinario legame tra il pensiero e la mano,
oggi i bambini sanno usare le tastiere ma non sanno più allacciarsi le
scarpe. Trovo giusto lasciare maggiore libertà anche a chi vuole usare
lo stampatello, ma l’importante è far recuperare a questa
generazione l’uso delle mani, al di là dei pollici che servono per
digitare i messaggi». Arte, natura, laboratori, la matematica, la
storia, ma anche veder nascere un vitellino. Per Franco Lorenzoni, nei
primi anni la scuola «deve essere un controcanto, preservare, essere
anche un po’ anacronistica rispetto alla società: i bambini possono
imparare che il sapere non è soltanto dentro il computer, ma
dappertutto, nella vita, nell’esperienza...». Ma la scuola
non è l’unica “imputata”. I piccoli scrivono sempre di meno non solo per
l’abbuffata di pc e tablet che li circondano quanto per la mancanza di
esempi. «Sono gli adulti, genitori compresi, a non saper più convivere
con la penna — incalza la calligrafa Monica Dengo — non possiamo
colpevolizzare soltanto gli insegnanti». A rischio poi c’è anche la
memoria: «I contenuti scritti con la propria penna restano assai più
impressi nella mente, rispetto a quando si utilizza il computer». E il
paradosso, aggiunge Dengo, è che proprio i grandi guru della Silicon
Valley se ne guardano bene dall’abbandonare i loro blocchi di appunti e
le loro (lussuosissime) penne. «I tavoli dei manager di Microsoft e
Google ospitano computer e tablet ma anche tanti fogli e appunti
volanti». A riprova di quanto la manualità sottile sia una dote da non
far cadere nell’oblio, la calligrafa Dengo ricorda: «Il Giappone dove si
mangia con le bacchette, che richiedono abilità e delicatezza, è il
paese nel quale i bambini hanno la più elevata capacità di uso della
scrittura».
Mi trovo d’accordo con molte affermazioni di questo interessante articolo. Credo che abbandonare la scrittura intesa come calligrafia e in particolare l’uso del corsivo sarebbe una grande perdita nell’apprendimento. Penso che ogni espressione della manualità nei bambini possa arricchire molto e spero che con un po’ di buon senso sia possibile anche in futuro far coesistere tecnologia e tradizione. Eleonora
RispondiEliminacondivido.anche perchè la grafia rivela molto della personalità di un soggetto e aiuta a capire meglio e in alcuni casi si può migliorare un disordine comportamentale anche migliorando la propia grafia.
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