la sofferenzaconturbante, penosa, difficile da tollerare. Quella che i
bambini portano nell’analisi cimenta l’analista in molti modi ed in
vario grado (Lucattini, Lupinacci 2012).
Il dolore non è purtroppo mai assente dalla vita, fin dalle origini; così non può essere assente dall’analisi.
“Una
analisi deve essere dolorosa, non perché vi sia per forza qualche
valore nel d
Tuttavia
ci sono gradazioni nel dolore e differenze nella qualità del dolore:
questa è una esperienza comune che ci viene dalla vita come dal lavoro
psicoanalitico. Bion prosegue infatti avvertendo che il dolore può a
volte essere così acuto, lacerante da essere invivibile.
Un
intenso dolore…rappresenta una minaccia per l’integrazione
mentale…l’accettazione da parte dell’analista che esiste la possibilità
di un deterioramento della capacità di soffrire può contribuire ad
evitare errori che potrebbero portare al disastro. Se il problema non è
preso in considerazione e trattato (delt with) la capacità del paziente
di mantenere la situazione statica può cedere ed essere sostituita da
una esperienza di dolore così intenso da condurre ad un crollo psicotico[1](Bion 1963, pp. 61-62).
L’origine del dolore nella vita psichica: il neonato fra angoscia e dolore.
E’
in genere poco ricordata una interessante integrazione al proprio
pensiero che Melanie Klein aveva fatto in un lavoro del ’48. In questo
lavoro parla della sofferenza per la perdita dell’oggetto primario anche
come oggetto parziale (corsivo mio), quindi anche solo per una parte del corpo della madre, una delle sue funzioni.
Oggi
collego l’origine dell’angoscia depressiva al rapporto con l’oggetto
parziale. Questa modifica del mio precedente punto di vista è frutto di
una più approfondita indagine sui primissimi stadi dell’Io e di un più
preciso discernimento dei gradi di sviluppo affettivo del lattante
(Klein 1948, p. 445).
Forse
già dal ’48 la Klein traeva questo “maggiore discernimento” da
osservazioni proprie e di altri sui lattanti, che descriverà poi più
compiutamente (Klein 1952). Il neonato non ha solo bisogni fisiologici.
Ha il pre-sentimento, in base ai suoi stessi bisogni, dell’esistenza di
un oggetto buono che risponda al suo bisogno di nutrimento, al desiderio
di vicinanza e calore, che gli si accosti con tenerezza ed amore; di un
tale oggetto soffre l’assenza o la perdita. Precocemente “l’anima
celata del neonato viene capita dalla Klein” (Vallino, Macciò
2004). Da allora l’osservazione psicoanaliticamente orientata secondo il
metodo di Ester Bick (1964), l’esperienza clinica e gli studi dell’Infant Research hanno confermato queste intuizioni.
Ma
lo stato di impotenza, fragilità e non integrazione del Sé infantile
alla nascita rende il neonato soggetto ad angosce molto primitive che in
parte precedono il senso di persecuzione dell’oggetto cattivo che si
nega. La Bick aveva compreso molto profondamente queste prime angosce.
Ella ricorda che nel neonato le componenti della personalità non sono
ancora differenziate dalle parti del corpo e prosegue:
Partiamo
dall’ipotesi che le componenti della personalità nella loro forma più
primitiva, non abbiano capacità coesiva e debbano pertanto essere tenute
insieme, in una esperienza totalmente passiva, tramite la pelle che
funziona come confine. Ma questa funzione interna di contenimento delle
componenti del Sé dipende inizialmente dalla introiezione di un oggetto
esterno che si dimostri capace di adempiere a tale funzione (Bick 1968, p. 90)
Anche
Winnicott (1958) aveva sottolineato il sostegno, particolarmente fisico
(holding), di cui il neonato ha bisogno per sviluppare in sicurezza il
sentimento di esistere
Il
fatto che la madre funzioni da pelle psicofisica protettiva ed
unificante contro l’angoscia di precipitare, frammentarsi, svuotarsi,
nei confronti delle quali il neonato è inerme, che gli permette nei
momenti sereni di sentirsi esistere senza sforzo, ci avvicina a
comprendere l’elemento di acutezza e di lacerazione del dolore primitivo
per la separazione e la perdita, la gravità delle difese messe in atto.
Ma
c’è dell’altro. France Tustin (1990) aveva aggiunto qualcosa di molto
interessante quando aveva sottolineato che il neonato non è in grado di
sostenere le tensioni sia piacevoli che spiacevoli, senza
l’assistenza partecipe ed emotiva della madre. Ella apportava, calata
nella sua esperienza di analista infantile in particolare con i bambini
autistici, la lezione di Bion: la funzione della madre non è solo quella
di nutrire e sostenere il suo bambino, ma quella fondamentale di
accogliere, contenere ed elaborare emotivamente e mentalmente tutti i
segnali che le giungono da lui (Bion 1962a). Questo
vuol dire comprenderlo nei bisogni e disintossicarlo dall’angoscia,
modularne l’eccessiva eccitabilità, dare un senso a quello che prova e
trasmetterglielo. Vuol dire ancora sostenerlo nella sua predisposizione
innata ad esplorare il mondo e comprenderlo, a vivere le emozioni e
scandire il tempo. Da potenzialità innate, la vita psichica si organizza
nel rapporto primario con la madre; così pure si forma la capacità di
tollerare la quota di umana sofferenza, inevitabile anche con una madre
sufficientemente buona. Questa è la fisiologia, se cioè le cose vanno
sufficientemente bene per il bambino e sua madre. Anche Vallino e Macciò
osservano che la presenza partecipe della madre, nei momenti in cui il
neonato soffre l’assenza del seno, è ciò che permette il prodursi del
“primo lampo di pensiero” del seno assente; il neonato allora soffre ma
cerca, spera, non va in pezzi (Vallino e Macciò ibid). Si
realizza ciò che Bion ipotizzava: che il pensiero, emergendo su basi
emotive, contribuisca a rendere tollerabile il dolore (Bion 1962a).
Ma
se così non avviene il neonato può trovarsi in uno stato che è fra
angoscia primitiva e dolore; ai confini forse di quella distinzione che
Freud fa tra il dolore per la perdita dell’oggetto amato e l’angoscia
per la minaccia alla persona nella sua totalità, che tale perdita porta
con sé. Siamo in un’area dove si avvicina fino a confondersi il dolore
per la perdita della madre fonte di esperienze, di unità, amore,
nutrimento e l’angoscia della disintegrazione, dello spandersi e cadere
in pezzi. Un’area dove il dolore della perdita (non contenuto e
assistito) si tinge del carattere acuto e lacerante di ansie molto
primitive di annientamento, mentre la struttura stessa mentale ed
emotiva ed il sistema di gestione del dolore possono venire danneggiati.
Dunque:
il bisogno e la capacità di rapporto affettivo del bambino fin dalla
nascita, la sua fragilità e vulnerabilità, la disponibilità (o
indisponibilità) di un oggetto vivente e capace di attiva sintonia per
assisterlo nell’intensità del suo vissuto mi sembra siano tre
fondamentali elementi in gioco quando “un intenso dolore…rappresenta una
minaccia per l’integrazione mentale e quando si manifesta la
possibilità di un deterioramento della capacità di soffrirlo”.
Parafrasando
Bion (1962b) quando parla della paura di morire del bambino che non
accolta e disintossicata diventa terrore senza nome, potremmo dire che
l’assenza o il mal funzionamento dell’oggetto primario e della relazione
madre-bambino trasforma l’umana sofferenza in dolore invivibile. Penso
si debba anche ipotizzare che la soglia di tolleranza alla frustrazione
ed alla sofferenza per la separazione abbia una variabilità individuale
innata e che i neonati fin dalla nascita non siano simili fra loro per
vitalità e forza. Ogni primo vagito è diverso dagli altri. Tanto più è
allora necessaria una presenza amorevole costante. Ma non è questo il
tema di questo capitolo né del presente volume.
Se
nella relazione con la madre anche la sofferenza può diventare
tollerabile, gravi o ripetuti traumi precoci nella relazione primaria
procurano dolori invivibili e insieme distruggono quella relazione del
bambino con la madre, fatta anche di piacere, di tenera emotività, di
sintonia, di fiducia all’interno della quale il piccolo può, fin dalla
nascita, gradualmente costruirsi una fisiologica tolleranza alla
frustrazione ed alla perdita insieme all’esperienza di piacere vitale e
di sicurezza. Ế la madre come compagno vivo, secondo la bella
espressione di Anne Alvarez (1992). Senza una relazione con un compagno
vivo diventa drammaticamente impossibile vivere qualunque emozione,
anche di piacere, e godere di circostanze divenute favorevoli. Il trauma
precoce, la ferita all’origine danneggia tragicamente la struttura
stessa della vita emotiva.
Il
problema che si pone è di un ordine duplice: 1) come si costituisce
all’origine il sistema di gestione del dolore fisiologico della
separazione e della perdita, quello inevitabile del vivere? 2) come si
può ri-costituire (o costruire per la prima volta) nell’analisi la
capacità di soffrire nei termini di una sofferenza umana, seppur acuta, e
quindi anche quella di godere il piacere, in una personalità la cui
vita emotiva è danneggiata all’origine?
Vorrei
ora mostrare in filigrana, come fosse al microscopio, le prime
esperienze dolorose e la loro storia nella relazione di una bambina di
pochi giorni con la madre, attraverso le note di una Osservazione della
relazione madre bambino fatta secondo il metodo della Bick (Bick 1964), e
metterle in relazione con brevi flash clinici dall’analisi di bambini
con gravi patologie.
L’osservazione: Chiara
24 giorni. Una relazione personale intensa - Chiara[3]
aveva a 24 giorni una relazione già molto personale ed intensa con sua
madre. Durante la poppata teneva gli occhi fissi negli occhi di lei ed
era, come vedremo più avanti, molto sensibile al suo sguardo ed alla sua
attenzione durante la poppata. Ciò che la teneva al seno non era solo
fame, ma evidentemente un bisogno relazionale ed un piacere emotivo.
Ugualmente possiamo pensare che durante la poppata, che è un momento
squisitamente introiettivo, la bambina mentre è al seno porti dentro di
sé altre esperienze, oltre a quella delle sensazioni piacevoli che
calmano la sua fame: l’esperienza e l’introiezione di un oggetto–mente
buono che nutre, comprende, si offre, partecipa; lo potrà memorizzare,
rievocarlo, sperarlo nei momenti di mancanza e di sofferenza.
Chiara
è terzogenita; la sorella e il fratello sono alquanto maggiori di lei.
La famiglia dà in generale una impressione di solidità e di ordine. La
madre, una giovane donna tendenzialmente depressa, ma non estremamente
disturbata, era nel complesso piuttosto adeguata. Chiara però era stata
una bambina non desiderata. L’impatto fu forte quando la madre, fin
dalla prima osservazione, ne parlò apertamente come se avesse essa
stessa avvertito il bisogno di un contenitore per i suoi dolenti
sentimenti di ambivalenza e colpa verso la bambina. Ế con dolore per i
propri sentimenti di rifiuto, che racconta di avere sperato di abortire.
Racconta anche di aver perso il padre quando era molto giovane e credo
che nella relazione con la bambina influisse questa precoce esperienza
di dolore e di perdita.
Ma nella stessa osservazione la mamma dà sfogo anche a molta tenerezza e
molto amore; finita la poppata, dice stringendo la bambina a sé:
“Povera piccola, e pensare che ti ho voluto tanto male!” Dice ancora che
sta comunque cercando di adattarsi alla bambina e di prendere il buono
che le viene da lei e di godersela. Dà realmente l’impressione di stare
cercando laboriosamente di trovare uno spazio nella sua vita e nei suoi
sentimenti per la piccola, pur soffrendo molto.
La funzione contenitrice della pelle
- Ma a 24 giorni Chiara non ha ancora introiettata la funzione
contenitrice della pelle. Ế anzi estremamente sensibile alla dimensione
dello spazio, che è una dimensione di separatezza. Dorme pacifica,
graziosa e senza rughe, nella carrozzina in camera dei genitori. Il
lettino preparato per lei è vuoto. Due tentativi di mettercela sono
stati infruttuosi: Chiara ha pianto tutto il tempo. Il lettino è più
ampio della culla, c’è troppo spazio vuoto intorno mentre è evidente il
suo bisogno di essere tenuta in un luogo raccolto di cui possa percepire
meglio i confini. Viene da pensare alla piccola paziente di Ester Bick,
Jill che chiedeva di avere gli abiti e le scarpe strettamente
allacciati (Bick 1968). Del resto anche per Chiara gli abiti erano
essenziali. Per tutti i primi due mesi, quando la madre la preparava per
il bagno, nel momento in cui le toglieva “l’ultima buccia” (le parole
usate dalla madre) formata dalla maglietta e dalla camicina, Chiara si
agitava sempre con aria smarrita, piangeva e tentava di aggrapparsi. In
questi casi la madre è sempre stata intuitiva nella comprensione delle
ansie della bambina ed abile e gentile nell’affrontarle. Ma per altri
aspetti risultava poco in contatto, distratta, cieca.
Quando,
dopo il mio arrivo, la madre comincia ad occuparsi della bambina mi
colpisce il contrasto tra il modo garbato, paziente con cui sveglia
Chiara ed il modo lasso con cui la tiene in braccio, semiseduta sulle
ginocchia con le proprie braccia che ne circondano il corpo, ma con il
proprio corpo tenuto scostato, distante da quello della piccola. Chiara
quasi subito comincia ad agitarsi, corruga la fronte, dimena il corpo;
cerca forse di trovarsi un appiglio e insieme allontanare concretamente
qualcosa, una esperienza certamente penosa, quella della fame. Prende a
lamentarsi piano. L’attesa del biberon che la nonna sta preparando (la
mamma non ha latte), si prolunga. Chiara piange e si dimena sempre più
forte. Non sembra un pianto rabbioso, ma qualcosa a metà fra dolorosa
delusione e smarrimento. I neonati hanno del resto molti ed espressivi
modi di piangere e lamentarsi. La mamma parla ed accarezza la bambina
che piange con una mano, ma con il resto del corpo rimane immobile, come
se non sapesse che farne di quest’altra parte di se stessa per venire
incontro al bisogno della figlia. Ế una scena molto penosa da osservare.
Non sembrano due persone che non possano amarsi, cercarsi; solo non si
capiscono. La perdita di comprensione mentale, emotiva trova il suo
corrispettivo nella perdita del contenimento fisico della madre.
All’ansia di perdersi, di non farcela a star su, seduta sulle ginocchia,
fuori dal grembo prenatale della madre, di non farcela ad esistere
separatamente, non avendo una propria pelle, si sovrappone in un modo
indistinguibile per una bambina così piccola la sensazione della
mancanza del seno, del buon latte che calma la fame, della vicinanza
della mamma, del suo corpo, della sua partecipazione emotiva.
Chiara
si aggrappa al golf della mamma all’altezza del seno. La mamma dice con
tristezza: “Non c’è niente, poverina, è una mamma di pezza”.
Quando
in fine la madre le porge il biberon, Chiara per un attimo fatica a
trovare il contatto con il succhiotto e ci si agita intorno. La mamma fa
in modo di coordinare la testa della bambina ed il succhiotto. Chiara
si attacca e succhia con grande impegno, avidamente, guardando tutto il
tempo con concentrazione la mamma, la quale a sua volta guarda la
piccola ed un po’ l’osservatrice. Così sembra che la poppata, con il
succhiotto/capezzolo nella bocca e gli occhi negli occhi della mamma, dà
finalmente a Chiara il suo punto di aggancio, il nutrimento tanto
atteso e risana la situazione. Soprattutto gli occhi negli occhi
sembrano formare un ideale ponte sospeso gettato sopra il rischioso
abisso della separatezza.
Un mese. Un quadro meno favorevole - Una osservazione successiva mostra un quadro meno favorevole.
Chiara ha appena compiuto un mese e la mamma sembra più tranquilla, ma è
più distratta. C’è in visita un’amica con dei bambini. Chiara dorme nel
lettino: è il primo giorno. La mamma ha deciso di mettercela e
tenercela a tutti i costi, come se volesse spingerla a diventare presto
grande, a separarsi, a fare da sola. Per tutto il giorno Chiara ha
dormito pochissimo ed ha pianto spesso. I fratelli dovevano ogni tanto
andare a rimetterle il ciuccio che lei lasciava cadere.
Il
letto (ma anche la mamma) non contiene lei; lei non contiene il
ciuccio. Ha bisogno di essere continuamente riportata da qualcuno,
concretamente presente, a ricompattarsi, stringendo la bocca intorno al
ciuccio. Dorme da appena un’ora, distesa a pugni chiusi e braccia
rialzate. La luce accesa dalla madre le fa socchiudere gli occhi ed
accennare qualche smorfia di pianto. La mamma la chiama e la prende su
per la poppata più sbrigativamente dell’altra volta. Chiara apre gli
occhi, ma è presente solo in parte. Senza troppo stimolarla la madre le
dà il biberon. Chiara succhia volentieri seguitando a dormire. Mentre
Chiara succhia, la mamma si mette a chiacchierare con l’amica; sembra un
po’ distaccata rispetto alla poppata. Chiara corrispondentemente si
distrae: diventa più addormentata e smette di succhiare. La mamma si
interrompe e la guarda; appena la mamma la guarda, Chiara riprende a
succhiare. I suoi occhi sono ora ben aperti e guardano decisamente la
mamma. La mamma riprende a conversare con l’amica e distoglie lo
sguardo. E’ via cioè da Chiara non solo con gli occhi, ma con la mente e
gli interessi. Chiara a sua volta richiude un poco gli occhi, succhia
sempre più lentamente. Il biberon è abbandonato nelle mani della mamma
distratta; Chiara non tiene il succhiotto né il latte. La mamma le
toglie di bocca il biberon dove ancora un po’ di latte è rimasto.
Chiara, ad occhi chiusi, ciondola con la testa sul braccio della mamma.
Sembra che si dissolva nel sonno.
La
bambina appare disturbata nel suo rapporto con la madre: il cambiamento
di letto e la madre distratta sembrano essere per lei esperienze di
perdita. Anche se riesce sufficientemente a nutrirsi, non c’è il
recupero di una buona relazione risanatrice con la madre, come
nell’altra osservazione. Più che il bisogno fisiologico del nutrimento,
il momento cruciale per Chiara di cui ella ha “fame” è l’attenzione, lo
sguardo, gli occhi della mamma. Se lasciata troppo a lungo a se stessa,
esistere in uno stato di separatezza diventa insopportabile, il dolore
invivibile. Dove la madre non ha occhi per la bambina, provare
sentimenti è un rischio tale che in pratica non può farlo. Direi di più:
non ce la fa proprio a tenersi insieme e sparisce nel sonno. In questo
modo non prova più emozioni: né di piacere e neanche di dolore.
40 giorni. Il dolore, Il recupero
- La mamma è fuori e nei giorni passati è stata più assente del solito
per preparare un concorso. La nonna mi porta da Chiara. Al mio arrivo la
piccola è nel lettino e sembra in uno stato di non integrazione. Non
riesce a dormire, agita le braccia in movimenti scoordinati; rigurgita,
non tiene il latte. I lineamenti del viso sono alterati e scomposti, non
più così armoniosi come il primo giorno; appare meno carina e meno
tonda. Si direbbe al confine fra disintegrazione e dolore, un dolore che
a questi livelli sembra si esprima direttamente nel corpo. Ma non solo.
La bambina comincia a lamentarsi debolmente, poi sempre più forte e
questa volta su due toni; il secondo, più drammatico, sembra venirle
proprio dal profondo. Colpisce questo lamento su due toni, dei quali il
secondo soprattutto, quello più cupo e drammatico, fa pensare ad un
profondo dolore che viene dal profondo delle viscere; qualcosa come il
prototipo del dolore mentale. Come se traumaticamente Chiara scoprisse
che c’è uno spazio troppo grande, una distanza incolmabile tra sé e la
madre, le sue braccia e il seno-biberon.
Scrive Bick:
Il
bisogno di un oggetto contenente, nello stato di non integrazione in
cui si trova inizialmente il bambino, sembra spingere alla frenetica ricerca
(corsivo mio) di un oggetto –una luce, una voce, un odore o un altro
oggetto sensibile – capace di attirare l’attenzione e di essere quindi
sperimentato, almeno momentaneamente, come qualcosa che tiene insieme le
componenti della personalità (Bick 1968, p.91)
Per
Chiara la “ricerca frenetica” non ha avuto esito, e la bambina prorompe
in urla. Ế però “in cerca”, non ha rinunciato, né si rivolge contro se
stessa graffiandosi o stropicciandosi come talvolta i bambini fanno. Più
volte la nonna deve tornare per ridarle il ciuccio e pulirla, finché
decide di riportarla nella carrozzina dicendo con empatia, quasi ad
identificarsi con lei: “Qui nel letto grande mi sento un po’ spersa”.
Chiara in questa situazione più raccolta non piange più, ma continua ad
essere irrequieta; apre e chiude gli occhi, fa dei deboli “ah, ah”. Ogni
tanto però si ferma tranquilla fissando l’angolo superiore della
carrozzina. Dopo l’intervento facilitante della nonna, sembra avere
trovato un punto di appiglio visivo nell’angolo superiore della
carrozzina[4].
Sotto la pressione dell’angoscia ed in questo momento di frattura e di
scoordinamento fra sé e la mamma, frattura del rapporto che non funziona
quindi più da pelle psichica contenitrice, sembrerebbe che Chiara nella
sua frenetica ricerca, scopra (o riscopra) che lo spazio esterno è
popolato da oggetti; non è il vuoto totale. C’è la nonna, ci sono le
pareti raccolte della carrozzina. Così cerca di aggrapparsi con lo
sguardo, come fa con il viso della mamma nell’allattamento. Forse si è
formato un senso di fiducia, di aspettativa che la nonna (o la mamma)
ritorni. Forse c’è un proto-pensiero della nonna (o della mamma)
assente. Forse è un primo abbozzo di rappresentazione simbolica: le
linee dell’angolo della culla rappresentano per lei la nonna (o la
mamma) che si affaccia. Possiamo spingerci fino a supporre che stia così
attivando un abbozzo di fantasia nata dalla spinta del suo bisogno
(Isaaks 1952)? Comunque sia, sembra si tratti di qualcosa che l’aiuta
nella sofferenza della separazione e nell’attesa.
Questo
tuttavia è uno stato di cose che la piccolina non può conservare a
lungo con le sue sole forze. L’elemento temporale infatti è un’altra
variabile che interviene intrecciata all’elemento spaziale costituito
dal contenimento (Lupinacci 2012).
Finalmente
arriva la mamma che ha l’aria stanca ed è carica di pacchi; constata la
situazione, parla della irrequietezza di Chiara che da due giorni ha
qualcosa che non va. Parla di arrossamenti al viso e di occhi gonfi. La
mamma si libera rapidamente dei pacchi e prende Chiara in braccio con
decisione. Questa decisione, questa fermezza della mamma, mentre le
parla dolcemente e la bacia, hanno un effetto istantaneo. Ora Chiara è
una pallina rotonda in braccio alla mamma. Ha il viso raccolto,
concentrato; resta immobile, con le braccia appoggiate al suo collo:
sembra che l’abbracci! La mamma dice qualcosa che sottolinea la
beatitudine di Chiara ora. Ed in effetti il cambiamento è
impressionante. Anche la mamma, che era tornata stanca ed un po’
affannata da fuori, con i pacchi che le pendevano dalle braccia, come se
fossero pezzi di sé che non riuscisse a tenere insieme, sembra
raccogliersi intorno alla figlia, rasserenata. E le due sono per un po’
proprio unite insieme. La mamma schiocca qualche bacio (due - tre) sulla
guancia di Chiara. Chiara fa l’identico rumore, due - tre volte, con la
bocca intorno al succhiotto. La coincidenza è così evidente che la
mamma ed io non possiamo fare a meno di notarlo e sorridiamo colpite.
Adesso
Chiara, in braccio alla mamma, tende a chiudere gli occhi con decisione
e si addormenta. Nel sonno sorride ed è un sonno molto diverso da
quello della seconda osservazione.
Tre mesi. Qualcosa cambia: dolore, rabbia, difese. Il recupero
- Il progressivo allontanamento della madre, iniziato circa in
coincidenza del compimento del primo mese di Chiara, continua. Quando ha
tre mesi la bambina viene per due giorni trasferita con i fratelli a
casa della nonna per permettere di studiare alla mamma, che sembra
regolarsi con lei allo stesso modo che con i fratelli maggiori. In quei
due giorni non l’ha mai vista. L’osservatrice assiste al primo incontro
della madre con la bambina dopo la separazione. La mamma si avvicina a
Chiara che è sveglia nella carrozzina: le parla, la bacia
affettuosamente, la tira su prendendola in braccio. Chiara non la segue e
si volta invece a guardare le luci del lampadario. La cosa è così
evidente che viene notata e commentata, con aria di scherno e di trionfo
sulla madre, dalla figlia maggiore di tredici anni. Si avvicina la
nonna (la persona che era stata più vicina alla bambina in quei giorni) e
parla a Chiara scherzando con lei; Chiara si volge prontamente alla
nonna, la guarda con occhi e viso espressivi, la segue con lo sguardo.
Si
potrebbe ipotizzare che i bambini così piccoli dimenticano facilmente,
che Chiara ha forse dimenticato sua madre. Ma Chiara è una bambina
socievole, che si interessa se qualcuno si rivolge a lei amichevolmente e
sorride facilmente. Il suo non è un mancato riconoscimento: la mamma è
volutamente ignorata. La bambina che nelle osservazioni precedenti era
apparsa così inerme ed esposta, passivamente e quasi fisicamente esposta
alla sofferenza per la separazione dalla madre (i tratti del viso
scomposti, i movimenti scoordinati, la pelle e gli occhi arrossati),
sembra che ora cominci a strutturare delle difese contro la dolorosa
percezione della perdita. Scinde la madre in una madre cattiva, che l’ha
abbandonata e che lei può attivamente ignorare, e in una mamma buona
rappresentata dalla nonna che si è presa cura di lei con cui può
conservare un rapporto affettuoso di sorrisi e sguardi. Il dolore è
diventato rifiuto; ad un sentimento troppo penoso per la mamma persa se
ne è sostituito un altro, mentre il senso di perdita è trasferito alla
(proiettato nella) mamma quando Chiara si distoglie da lei.
Ci
vuole parecchio perché Chiara si riconcili con sua madre. La madre le
dà tempo; la piccola comincia a seguirla ed anche a sorriderle. Ma lo
stato di tensione emotiva alla quale è stata sottoposta (dal ritorno
stesso della madre, un evento piacevole) forse non si è del tutto
esaurito. Notando che la osservo, Chiara fa anche a me un sorriso enorme
e poiché le rispondo, raddoppia i sorrisi, si dimena, sgambetta
eccitata. Sembra una reazione un po’ esagerata: come se la bambina si
rivolgesse anche a modalità un po’ seduttive di eccitazione,
sgambettamenti, sorrisi seducenti per assicurarsi simpatia ed attenzione
anche di qualchedun altro oltre alla mamma. Tutta questa euforia di
Chiara deve sembrare un po’ esagerata anche alla mamma, che infatti la
raccoglie vicino a sé con un ampio movimento delle braccia e del corpo,
tranquillizzandola. Chiara mette ora un pugno in bocca e con l’altra
mano cerca il golf della mamma, la collana, ci gioca, gioca con le dita
della mamma. Sembra quasi che, dopo alcuni preliminari difensivi, una
mano stia progressivamente riprendendo contatto con il corpo di sua
madre pezzo per pezzo, prima alla lontana, poi più da vicino (il golf,
la collana, le dita); mentre con l’altra mano chiusa a pugno infilata in
bocca forma un arco dal corpo della mamma alla sua bocca, come per
riprendersi dentro e ricostruire dentro di sé, incorporandola tutta
pezzo a pezzo, la mamma persa. A questo punto la bambina sembra potere
passare a modalità meno concrete, meno puramente fisiche di rapporto.
Comincia,
fra mamma e figlia, un dialogo di mimica labiale, poi di vocalizzi, di
“eeh”, di “nghee” dall’una all’altra. Chiara guarda ora intensamente la
mamma e con la mano cerca sempre verso il seno. Sembra che, superato
dolore e rifiuto, ripreso contatto e recuperato concretamente il corpo
della madre, la bambina possa a questo punto stabilire modalità di
relazione (il vocalizzare, il guardare) che implicano comunque una certa
distanza, una separatezza. Ciascuna è nella propria pelle; tuttavia una
relazione è possibile che non è solo fisica, basata sulla esperienza di
ritrovamento, costruzione e ricostruzione introiettiva della madre
all’interno di sé, alla quale potere tornare ogni volta che una
esperienza di perdita si dovesse ripresentare.
Due
sono le protagoniste di questa piccola, espressiva vicenda ricca di
sfumature emotive. La mamma che realmente ritorna, disposta ad aspettare
che la bambina si riprenda dopo la separazione di due giorni; la mamma
con la sua fermezza nell’assorbire, contenere e disintossicare il
rifiuto iniziale della neonata e lo scherno dell’adolescente, la sua
sensibilità nel modulare le reazioni della piccola impedendole di
disperdersi nell’eccitazione delle risate e degli sgambetti,
riportandola ad una situazione di intimità e di contatto con se stessa.
In effetti era come se l’avesse riportata al punto, e il punto era che
bisognava realizzare che c’era stata una separazione, ma che la distanza
fisica poteva, entro limiti, essere colmata da una relazione emotiva
amorevole.
La
bambina che, ben accudita da una nonna affettuosa e di buon senso, a
tre mesi ha acquistato consistenza ed integrazione sufficiente da
mettere in moto meccanismi di difesa contro la sofferenza della perdita,
da indurirsi in un rifiuto attivo; che poi in una situazione favorevole
riesce ad utilizzare il contenimento offerto dalla madre, si
ammorbidisce accettando la relazione, prende iniziative per ritrovare
concretamente la mamma e ricostruirla dentro di sé. A questo punto può
iniziare il dialogo vocale: una forma più evoluta di comunicazione.
Nella stanza d’analisi: Dino e Lilli
Spazio, Tempo e Dolore -
Sul vissuto di dolore ai livelli primitivi di sviluppo e sulla sua
tollerabilità, l’elemento temporale gioca un ruolo fondamentale insieme
all’elemento spaziale all’interno della relazione. Per elemento spaziale
intendo il contenimento o la perdita del contenimento, da parte
dell’oggetto: per la neonata Chiara l’attenzione, lo sguardo, la
saldezza della tenuta delle braccia della mamma, le dimensione della
carrozzina. Esso determina la sensazione di potere esistere e sentirsi
ricompattati in un luogo che è fisico e insieme psichico (la relazione
con la madre). Nell’analisi l’aspetto fisico del contenimento è
enormemente ridotto, soprattutto con gli adulti, ma non assente e
riguarda fondamentalmente le condizioni del setting. Il luogo, la stanza
d’analisi nella sua riservatezza, i giorni, l’orario, il tempo della
seduta mantenuti con costanza, la presenza sicura dell’analista sono
fattori fisici, concreti del contenimento che hanno un valore e una
risonanza psichica. Con i bambini i fattori fisici del contenimento sono
anche più evidenti. Con tutti prendono significato all’interno di una
relazione emotivamente significativa che può venire esplorata e pensata.
Nell’analisi infantile è un luogo fisico e mentale (la mente
dell’analista e del bambino in rapporto) permeato di emozione e di
significato dove si tenta di sostenere il dolore, che crea anche una
delimitazione interno/esterno, io/l’altro, dentro/fuori e prima e poi.
Per
elemento temporale intendo che la capacità di tollerare, senza
disintegrarsi o ricorrere a difese disfunzionali, l’angoscia riguardo al
“quando” (quando tornerà l’Oggetto del bisogno e del desiderio) e al
“per quanto tempo” (durerà lo stato di sofferenza), dipende anche
dall’acquisizione del “senso del tempo”. Tuttavia l’acquisizione di un
senso soggettivo del tempo riguardo a sé stessi (il vissuto di sé nel
tempo) e al mondo esterno (dell’altro in movimento, che va e torna), il
“tempo che passa” anche in modo oggettivo, misurabile, dipende dalla
relazione con l’oggetto primario declinato principalmente dall’elemento
presenza/assenza, anche in rapporto al ripresentarsi degli stimoli
psicofisici (bisogni, disagi ecc.) soggettivi. E’ l’assenza ed il
ritorno dell’oggetto che scandiscono il tempo dell’essere nel mondo. Il
senso del ritmo, della circolarità, della linearità vissuti a livello
psichico. E’ perciò evidente che quanto più il bambino è piccolo e/o
costituzionalmente fragile, tanto meno è in grado di affrontare da solo a
lungo la sofferenza per la separazione e le angosce agoniche della non
integrazione o della perdita di integrazione. Mentre in uno stato di
contenimento una certa compattezza del Sé offre uno spazio mentale nel
quale può affiorare – per giungere successivamente ad essere formulata -
l’idea del tempo. Di un tempo contabile e delimitato a fronte del
“senza tempo” dell’organismo immaturo, che rischia di perdersi in uno
stato di vuoto infinito. Un “senza tempo” che ha un senso del tutto
diverso da (ma non in contrasto a) l’assenza della dimensione
asimmetrica, diacronica del tempo, propria dell’inconscio freudiano
(Freud 1915). Il senso del tempo contabile, delimitato costituisce anche
un limite, nel senso latino di limen; soglia delimitante sia
costrittiva (limitazione) che di confine protettivo rispetto al rischio
di perdersi, o che l’oggetto si perda, in uno spazio/ tempo infinito. Un
limite alla presenza, ma anche all’assenza. Questo può costituirsi solo
nel rapporto, nel contenimento dato dal rapporto, nello spazio emotivo e
mentale della relazione primaria.
Così
conta che la madre arrivi a tempo, che gli stati di angoscia primitiva
non si protraggano oltre; ma anche che la madre non sia confusa col
bambino, sempre la incollata a lui; che non scambi i propri tempi con
quelli di lui o a lui appropriati.
L’attenzione
– Bion (1963) ha riconosciuto nell’attenzione una delle tappe
fondamentali per lo sviluppo emotivo e mentale e l’uso dei pensieri.
Esperienze di osservazione della relazione madre neonato come quella di
Chiara, mostrano l’effetto straordinario dell’attenzione concentrata,
dello sguardo vivo della madre sul bambino anche piccolissimo. Lo
compattano, lo tengono presente, sveglio, in contatto emotivo con
l’oggetto che si prende cura di lui.
Con
Dino, un bambino autistico di 4 anni, ne ho fatto una esperienza
indimenticabile. Parlavo con i genitori, nel primo incontro con loro.
Dino girovagava senza meta nella stanza. I genitori mi raccontavano le
loro difficoltà e preoccupazioni; io li ascoltavo e osservavo anche il
bambino; alternavo qualche commento e qualche domanda a loro con,
rivolta a Dino, una specie di radiocronaca dei suoi movimenti. “ Oh!
questa stanza è nuova per Dino; Dino gira da per tutto; ora sta
guardando sul tavolo, osserva che cosa c’è; ecco ha scoperto il cestino!
ecc.”. In cerchi concentrici sempre più ravvicinati Dino si era
avvicinato attirato dal mio parlare a lui, aveva scoperto uno sgabello
semi nascosto vicino alla mia poltrona e si era accoccolato vicino a me.
In questo tipo di bambini il bisogno e la capacità di rapporto
affettivo deve essere cercata per così dire con la lanterna; a volte
suscitata, enucleata addirittura. Tuttavia la risposta può essere
sorprendente.
Questo
fragile legame in un bambino così fragile e seriamente malato mostra
tutta la sua vulnerabilità al turbamento della prima prolungata
separazione. Per i primi giorni dopo la prima vacanza più lunga, Dino
aveva ripreso a saltellare a caso nella stanza con le mani sfarfallanti,
lo sguardo perso come non vedesse ne’ me ne’ i giochi nel cassetto
aperto per lui. Dovevo cercare di riagganciarlo. Così avevo malgrado
tutto continuato a parlargli di come si doveva sentire disorientato e
perso nel tornare dopo tanto tempo; mostrando di ricordarmi io di lui,
rievocando le cose che avevamo fatto insieme prima delle vacanze,
parlandogli della sua sensazione di non ritrovarcisi lì con me, di non
ritrovare più nulla. Era un tentativo di raccogliere le sue sensazioni,
anche se penose, dare loro un senso, farlo sentire capito e contenuto;
non in un vuoto senza tempo e senza senso.
Gradatamente,
quasi attirato fuori dallo stato di assenza autistica dalla mia voce
che intanto gli parlava, il bambino si era via, via orientato verso il
cassetto dei giochi e vi aveva ritrovato con sorpresa qualcosa di suo
(un dolcetto) lasciato lì prima delle vacanze. Lo sguardo fatto attento,
aveva dato segni di piacere, aveva ripreso contatto con il materiale di
gioco e, in sequenze significative, aveva tracciato i primi disegni. La
sensazione di avere lasciato una traccia in me, nella mia mente e
concretamente nel mio cassetto lo ricompattava un pochino; si allargava
poi alla sensazione che ci fossero luoghi solidi (il foglio) dove potere
lasciare tracce. (Lupinacci 1996). A questi livelli primitivi le cose
sono sempre vissute in modo molto concreto (il biberon nella bocca, le
braccia della mamma per Chiara, il dolcetto nel cassetto insieme al
suono della mia voce per Dino), ma una concretezza che è permeata di
significato e di emozione perché compare e va incontro al bambino nell’ambito di una relazione (con l’oggetto primario, con l’analista).
Lilli: voltare le spalle al reale[5]
- Chiara si era distolta dalla mamma, voltandole le spalle, ma poi era
stata ripe Ne ostacolano però lo sviluppo
armonico e, pur costituendo dei “rifugi” nel senso dato da Steiner
(1993) a questo termine, sono però fonte di disagio e profondo
isolamento.
Lilli
era una goffa ragazzina di nove anni: “un tronchetto” la descriveva la
sua analista. Dei comportamenti molto peculiari l’avevano fatta
segnalate dalla scuola. Parlava poco, con aria di seccata degnazione.
Disegnava in modo ossessivamente meticoloso e coscienzioso. L’analista
si sentiva annoiata ed oppressa e faticava a non spazientirsi per gli
atteggiamenti goffi, ma piuttosto trascurati, con cui la bambina
spargeva per la stanza indumenti, briciole della merenda, matite,
zainetto ecc. Aveva però smesso di spazientirsi quando aveva realizzato
che quei comportamenti erano il segno di una scarsa integrazione, di un
non sentirsi tenuta e non potere tenere ne’ tenersi; come la bambina
“sacco di patate” della Bick (1968).
Uno
dei primi disegni di Lilli era stato un minuscolo fiorellino disegnato
nell’angolo superiore di un gran foglio bianco; il gambo del fiorellino
fuoriusciva dall’angolo, come venisse dal di fuori, da un mondo “altro”
cui il foglio non apparteneva. La testa/corolla faceva capolino nel
grande foglio bianco, ma l’impressione che dava era di qualcuno che ti
guardasse dall’alto, appollaiato sul soffitto e, rispetto alla base del
foglio, avesse una visione del nostro mondo ordinario capovolta, molto
peculiare.
Apparentemente
succedeva poco nelle sedute, ma l’analista cercava di comunicare con la
bambina facendo commenti che descrivevano, che cercavano di cogliere un
senso in quello che Lilli stava facendo; cercavano di capire e
rianimarla un po’. La bambina disegnava e disegnava. Non giocava. Ogni
tanto avvenivano degli episodi che lasciavano l’analista con la
sensazione di inciampare contro qualcosa che le facesse improvvisamente
perdere l’equilibrio: Lilli diceva che la sciarpa l’aveva lavorata la
mamma; dopo un poco improvvisamente parlava della sciarpa “fatta da
lei”!
Un
giorno Lilli affidò la sua bella sciarpa all’analista perché la
riponesse, invece di lasciarla cadere a casaccio con il resto.
L’analista sentì che la bambina per la prima volta le si stava
affidando, si appoggiava a lei. Lilli aveva da poco cominciato a
“giocare” un gioco che lei stessa aveva inventato. A turno lei e
l’analista dovevano disegnare nelle linee essenziali qualche oggetto
della stanza e l’altro doveva indovinare di cosa si trattasse.
L’analista notò che Lilli, che aveva cominciato a scegliere oggetti
periferici e comunque più o meno neutri, poco alla volta era passata a
disegnare dettagli della sedia dell’analista, del suo abbigliamento e in
fine della sua persona. Una sorta di costruzione (o ricostruzione)
della persona dell’analista pezzo per pezzo, che però era un segreto
(doveva essere indovinato). E di fatto veniva indovinato e nominato
dall’analista stessa. Cioè l’analista nell’“indovinare” ricostruiva
nella propria mente la costruzione che la bambina faceva di lei. Lilli
poteva costruire pezzo per pezzo l’analista e tenerla come oggetto
significativo nella propria mente in quanto l’analista poteva
immaginare, avere spazio nella mente per Lilli che la cercava e
costruiva, proprio mentre lo faceva. Intanto l’analista seguiva Lilli
sul suo terreno, disegnando anche lei cose che appartenevano alla
bambina o dettagli della sua persona.
In
questo stesso volume Biondo descrive la lenta, paziente ricostruzione,
letteralmente pezzo a pezzo (un braccio, una gamba alla volta) che egli
aveva dovuto fare del suo piccolo paziente la cui personalità era stata
distorta e quasi distrutta da ripetuti tremendi traumi precoci. Anche
nel caso di Biondo la ricostruzione doveva avvenire in segreto:
esistere, esporsi fuori dal rifugio è sentito inizialmente come un
grande rischio. Rischio di ulteriore esposizione al trauma nel caso del
bambino; di disvelamento del segreto di un funzionamento borderline che
volge le spalle al reale nel caso di Lilli.
Il
gioco inventato da Lilli era andato avanti per un po’ finché, dopo uno
di quegli strani incidenti che sbilanciavano l’analista (aveva disegnato
un libro, con tanto di editore segnato e poco dopo ne aveva parlato con
naturalezza come di un quaderno), la bambina aveva cominciato a
disegnare strani piccoli sgorbi. L’analista aveva detto che sembravano
segni, lettere; forse di un altro alfabeto speciale? Lo erano. Lilli
aveva detto di si, che era una lingua segreta, un alfabeto segreto, con
regole segrete. Per esempio si leggeva alla rovescia; se l’ordine delle
lettere nella parola cambiava, la lettera diventava un’altra e così via.
La bambina stava così cercando di comunicare con l’analista sul suo
mondo segreto e alterato; glie ne rivelava anche il linguaggio e
l’alfabeto peculiare e segreto.
Ancora una volta nella relazione
era avvenuta una ricomposizione emotiva; una ricomposizione ed una
integrazione del Sé e dell’Oggetto che potevano fare sperare di
ricondurre la bambina ad un mondo meno peculiare, più umano dove il
dolore esiste, ma solo come una (fra le tante) inevitabili parti della
vita.
Conclusioni
Nell’osservazione
di una neonata di 24 giorni abbiamo potuto cogliere, nell’arco delle
dieci settimane successive, le prime esperienze dolorose per la perdita e
la loro storia, e la qualità che il dolore per la perdita manifesta
proprio per la fragilità di un bambino così piccolo. Abbiamo seguito
Chiara dall’andare in pezzi passivo, dal senso di annientamento alle
difese primitive (annullarsi e scomparire, aggrapparsi) fino
all’indurirsi, al rifiuto attivo, con la scissione e la proiezione della
sofferenza nell’altro, cioè nella madre rifiutata quando ritorna. Ế
apparsa evidente la necessità che il dolore, anche quello quotidiano e
inevitabile, sia assistito da un oggetto che lo comprende e lo contiene
attraverso la ricostruzione del legame che la separazione ed il
dolore possono avere infranto. Il legame nella relazione primaria
fornisce il bambino di un contenitore fisico e mentale per esistere,
ricomporsi, ritrovare e ricostruire l’oggetto. Tutto ciò lo abbiamo
visto in un contesto che, anche se perturbato dal fatto che la bambina
non era voluta, era sufficientemente normale e nel quale era spesso
possibile recuperare e riparare la “ferita” precocemente e
tempestivamente. Ma poiché questi sono elementi basici della vita
emotiva alle sue origini, li ritroviamo, sia pure esasperati ed
eventualmente distorti, anche nell’analisi di bambini e di adulti e sono
specialmente importanti nell’analisi di soggetti, particolarmente di
bambini, gravi e/o precocemente traumatizzati.
Il
sistema di gestione del dolore sembra richiedere uno spazio per le
emozioni, un contenitore fornito da un Io sufficientemente integrato che
ha potuto stabilire dentro di sé un oggetto sufficientemente stabile
con qualità e funzioni particolari. Quali? Lo abbiamo visto: un oggetto
che ritorna e non abbandona troppo a lungo nel bisogno; che presta
attenzione; che ci stà nel momento del dolore e non teme la
contiguità con la sofferenza, così da offrirsi come punto di appiglio
che ricompone la frammentazione e recettivamente accoglie la pena e la
disintossica dalla invivibilità che disintegra. In questa descrizione
dell’oggetto primario è inevitabile notare la sinergia di contenitore e
contenuto come quella che si realizza fra seno e capezzolo, ma anche
come sinergia di elementi primari parziali femminili/materni
(l’attenzione recettiva, la reverie trasformativa) e maschili/paterni
(lo starci, l’essere presenti con saldezza, l’offrirsi punto di
appiglio). Non suona per altro inaspettato ritrovare nella delicata e
fondamentale funzione di gestione del dolore gli elementi primari
parziali di una coppia genitoriale sana e ben funzionante, che
rappresenta infatti il luogo naturale di vita e di crescita per il
bambino. Ne’ suonerà inaspettato che questi elementi in funzionamento
sinergico debbano essere corredo necessario all’analista nel suo lavoro
(Lupinacci 1994) particolarmente per affrontare il dolore mentale.
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